In uscita il 29 agosto “Il magico studio fotografico di Hirasaka” della scrittrice giapponese Sanaka Hiiragi, un romanzo delicato e profondo che parla di vita e di morte. E la sua scrittura, la sua poetica è legata a doppio filo alla fotografia. Scopriamo perché.
“Il magico studio fotografico di Hirasaka” sembra essere un romanzo intrigante e profondo, che esplora temi come la vita, la morte, l’amore, e la perdita. Il protagonista, il signor Hirasaka, gestisce uno studio fotografico speciale, dove i visitatori possono rivivere i loro ricordi più preziosi e scattare di nuovo le loro foto preferite. Ogni visitatore è accolto con attenzione e un rituale preciso.
Lo studio sembra essere un luogo speciale, situato al confine tra questo mondo e l’aldilà, dove le persone possono avere dei flashback e ricordare la loro esistenza prima di andare oltre. Questa credenza è radicata nella tradizione giapponese, che vede luoghi di passaggio e un processo di ricordi prima della morte.
Gli ospiti di Hirasaka ricevono degli scatoloni contenenti foto-ricordo di tutta la loro vita e possono scegliere una foto per ogni anno vissuto. Tuttavia, c’è una regola: non possono interagire con nessuno durante questo processo.
La storia sembra essere ricca di emozioni e messaggi consolatori sulla bellezza della vita e sull’importanza di cogliere ogni attimo. Le scelte che i visitatori faranno e le vite che hanno vissuto possono essere affascinanti e coinvolgenti.
Non è chiaro perché solo Hirasaka rimanga sempre nello studio, ma potrebbe essere una parte intrigante della trama che viene svelata durante il corso del romanzo.
In definitiva, “Il magico studio fotografico di Hirasaka” sembra essere una storia magica e coinvolgente che abbraccia il fascino della tradizione giapponese e riflette sulla vita e sulla morte in modo delicato e profondo.
La signora Hiiragi è una scrittrice pluripremiata che ama le macchine fotografiche e la fotografia. Scrive di macchine fotografiche e fotografia per una varietà di media e sui suoi siti di social media condivide molte istantanee che ha scattato con il GR!
A febbraio, ha pubblicato il suo libro, “Tengoku kara no takkyubin (Consegna a domicilio dal cielo). Nel capitolo 4, c’è un episodio che parla di un club fotografico e di macchine fotografiche:
“Era quando mixi (un sito di social media in Giappone) era in piena espansione. Quando stavo cercando di fare sul serio con la fotografia, ho scoperto che ogni macchina fotografica aveva la sua comunità e ho iniziato a sbirciare in varie stanze della macchina fotografica. Tra questi, ho trovato la stanza GR quella con il senso di distanza più confortevole e le foto più belle. Poi ho iniziato a fotografare con la GR Digital II come un diario, poi GR1, GRIII e GR IIIx. GR è sempre stato il mio buon partner.
Porto con me il mio portafoglio, il mio telefono e il mio GR. Lo porto con me quando vado a fare jogging e in campeggio.
Ho il mio GR nella mano destra non appena penso: “Oh, grandi nuvole di aeroplani!” Voglio che la mia macchina fotografica sia con me ogni volta che il mio cuore si muove anche solo un po’, e penso che la GR sia perfetta per questo.
La vita di tutti i giorni è così fragile che sfugge rapidamente ai tuoi ricordi.
Che sia il colore di una foglia di banano, il riflesso dell’acqua o un paesaggio innevato, voglio catturarli uno per uno con il mio GR e conservarli come un tesoro”-
Chi è Sanaka Hiiragi
è una scrittrice, scrittrice, nata a Kagawa, cresciuta a Hyogo e vive a Tokyo. Nel 2013, ha debuttato come vincitrice segreta del “Premio KONOMYS”. Una serie di racconti ambientati in un negozio di macchine fotografiche classiche di lunga data a Yanaka, e un romanzo giallo per macchine fotografiche, “Yanaka retoro kamera ten no nazo biyori (Giorni misteriosi allo Yanaka Retro Camera Shop” in tre volumi (Takarajima-sha), hanno portato alla sua scrittura per riviste di fotografia e macchine fotografiche. Ha anche scritto “Jinsei shashinkan no kiseki (Miracoli nello studio fotografico dopo la vita” (Takarajima-sha), una storia su uno studio fotografico speciale che scatta foto di lanterne in corsa. Il 17 febbraio, 2022, è stato pubblicato “Tengoku kara no takkyubin (Consegna a domicilio dal cielo)” (Futabasha).C’è un episodio su un club di fotografia e macchine fotografiche nel capitolo 4 del romanzo.Un romanzo giallo umoristico su tre ragazze in una scuola di fotografia e un l’uscita della fotocamera di grande formato è prevista per luglio Photo & Culture, Tokyo PCT “Sanaka Hiiragi no kamera numa (Le fotocamere senza via d’uscita di Hiiragi Sanaka)” viene pubblicato settimanalmente.
La casa editrice regala l’incipit del libro e noi volentieri lo ripubblichiamo!
“Benvenuta nel mio studio fotografico, signora Hatsue. Queste fotografie raccontano la sua vita: le è concesso di tornare indietro nel tempo e scattare di nuovo la sua foto preferita. Ma potrà farlo solo una volta e non potrà parlare con nessuno. È pronta?”
Quella della signora con l’autobus
Le lancette e il pendolo del vecchio orologio a colonna erano ferme. Hirasaka tese l’orecchio. Lo studio fotografico era così silenzioso che gli sembrò di sentire un ronzio. Le scarpe di pelle affondavano nel tappeto rosso un po’ rétro.
Accarezzò le genziane disposte con cura sul bancone. Le ruotò leggermente.
In fondo all’androne c’era una larga porta a due battenti, socchiusa, oltre la quale si intravedeva lo studio. Sotto una luce fioca era steso un fondale di carta davanti a cui era stata sistemata, su un lato, una lussuosa poltrona. Su un piedistallo, una grossa macchina fotografica a soffietto. Piedistallo e macchina fotografica erano di legno robusto, più grandi del normale; suscitavano puntualmente lo stupore dei clienti, che dicevano: “È incredibile, questa macchina: sembra un cofanetto di legno”. I più esperti invece commentavano: “Ah, che nostalgia. È una Anthony, vero?”, e da lì partivano lunghe conversazioni.
Appena il tempo di chiedersi a chi appartenesse l’ombra obliqua fuori dalla finestra che sentì chiamare: “C’è una consegna! Una consegna per il signor Hirasaka”.
E poi un toc-toc, toc-toc allegro.
Hirasaka aprì pensando a quel tipo che ripeteva continuamente gli stessi gesti, eppure sembrava sempre divertirsi un mondo.
Sulla soglia trovò il giovane fattorino in divisa. Portava il berretto con la visiera all’indietro, e come al solito spingeva un carrello portapacchi. Guardò la scatola posata sul carrello e ne sottolineò le dimensioni con un mezzo sorriso.
All’altezza del petto, sulla divisa c’erano un gatto bianco stilizzato e il nome dell’addetto, Yama. Era calvo, e con un’abbronzatura che gli dava un aspetto gradevole.
“La sua prossima visita sarà una graziosa signorina,” disse porgendogli la cartella delle ricevute.
“Bugiardo,” ridacchiò Hirasaka mentre firmava.
“Signor Hirasaka, non riuscirà mai a portare da solo un pacco così grande, non vuole che la aiuti? Consegne così voluminose non ne facevo da un pezzo. Le fotografie che ci sono qui dentro avranno cent’anni, secondo me.”
I due sollevarono insieme la grossa scatola e la appoggiarono sul bancone. Era così pesante che si ritrovarono entrambi senza fiato. “Signor Hirasaka, cos’è, si è ravveduto? Non è che ha deciso di cambiare mestiere?” ridacchiò Yama.
“Forse sì. Tra un po’, però.”
“Figuriamoci,” ribatté Yama sistemandosi il berretto. “Bene, vado, mi aspetta un’altra consegna. Abbiamo ogni giorno il nostro bel da fare noi due, non è vero? Cerchiamo di non rimetterci le penne.”
“Non penso proprio che ci sia questo rischio.”
Yama fece un cenno con la mano e se ne tornò spingendo il carrello, la cartella delle ricevute sotto il braccio.
Hirasaka allestì lo studio per la sua prossima cliente, la signora Yagi Hatsue. Pregava sempre di “vederli andar via” contenti, che le fotografie fossero di loro gradimento.
E poi…
Di riuscire a incontrare finalmente quel “qualcuno” che cercava da tempo.
* * *
“Signora Hatsue! Signora Yagi Hatsue!” chiamò una voce maschile.
Sentendo il proprio nome, Hatsue si svegliò di colpo.
Dove si trovava? Era distesa sul fianco, su un divano, qualcuno l’aveva addormentata. Sopra di lei, un soffitto sconosciuto e il volto preoccupato di un uomo che la scrutava.
Provò a frugare tra i ricordi più recenti per cercare di capire se, per caso, fosse svenuta a causa del gran caldo degli ultimi giorni, ma si rese conto che la sua memoria era avvolta da una specie di bruma.
Mi chiamo Hatsue, ho novantadue anni, sono nata nel quartiere di Toshima: bene, le mie rotelle sono ancora tutte a posto, o almeno credo.
Osservò agitata il viso dell’uomo. Evidentemente si conoscevano, perché l’aveva chiamata per nome. Ma chi era…? Forse aveva trovato il suo nome tra i suoi effetti personali mentre era priva di sensi. Cercò di sollevarsi e intanto si sforzava di ricordare. Piano piano, si fece avanti con le spalle badando a non affaticare la schiena. Anche se era svenuta non si sentiva particolarmente acciaccata.
Restava il problema di chi fosse quel tale. Fino ad allora, ogni volta che qualcuno per strada le aveva rivolto la parola era sempre riuscita a capire di chi si trattava, e allora diceva: “Sei Tizio, sei Caio…?”. E lo faceva contento.
Con l’età la mente si arrugginisce, che disdetta.
“Benvenuta. La aspettavo,” le disse l’uomo.
Puntò l’indice verso sé stessa, come a chiedergli se parlasse proprio con lei, e lui fece sì con la testa.
“Lei è la signora Hatsue, no?”
“Be’, sì…”
Osservò l’uomo dal basso. Portava una camicia grigia con il colletto inamidato. Aveva i modi pacati dei pastori o dei preti. I capelli ben pettinati. L’aria gentile ma non del tutto trasparente. Non era bello da far girare la testa ma nemmeno brutto, un tipo dall’aspetto piuttosto ordinario, che poteva assomigliare a chiunque e a nessuno.
“Mi chiamo Hirasaka, e gestisco da molti anni questo studio fotografico,” si presentò.
Hatsue si accorse di non avere più il bastone. Forse le era caduto quando aveva perso i sensi?
Vedendo che si guardava intorno, Hirasaka pensò di doverle spiegare dove si trovava, e così le disse: “Quando si entra, sulla sinistra, c’è lo studio vero e proprio. Ma per le fotografie a volte usiamo anche il giardino interno. Sulla destra ci sono la sala d’attesa e il laboratorio. Glieli mostro”.
Hatsue non cambiava mai: quando qualcosa le interessava, voleva sapere tutto.
E adesso avrebbe voluto sapere perché il proprietario di quello studio fotografico la stesse aspettando.
E che cosa potesse mai desiderare da lei.
E soprattutto, come fosse arrivata fin lì.
“Prego, mi segua,” le disse, e così lei, che in realtà avrebbe avuto una montagna di domande da fargli, si limitò ad alzarsi lentamente. Era da tanto tempo che non camminava senza aiutarsi con il bastone. Si appoggiò al divano, fece forza sulle braccia e alla fine riuscì a spostarsi. Stranamente si sentiva bene, non le faceva nemmeno male la schiena. Hatsue seguì piano piano Hirasaka. Lui le usò la cortesia di porgerle la mano.
Nella sala d’attesa tutto era tranquillo. Il divano in pelle era logorato dall’uso, ma si vedeva che lo tenevano ben pulito, e anche il vecchio tavolo in legno faceva bella figura. Tutto trasmetteva una sensazione di attenzione e cura, non di sperpero da collezionisti, e Hatsue si disse che quel giovanotto sembrava avere davvero buon gusto.
Nel giardino oltre la vetrata brillavano tante piccole luci e guardando meglio notò che erano lanterne in pietra ricoperte di muschio, e poi c’erano ciliegi dai rami penduli e tsuwabuki che, se usate come sfondo per fotografie in kimono, ne avrebbero fatto risaltare le fogge e i colori. In un angolo della stanza c’era una vetrina con una collezione di bollitori elettrici, bicchieri con il sifone per preparare il caffè e tazzine. Fu colpita dall’assenza di polvere – Hirasaka, pensò, doveva essere un amante della pulizia. Poi, notò una grossa scatola sul tavolo.
“Le preparo un tè,” disse Hirasaka dandole le spalle, e cominciò a disporre tazze e teiera con mano sicura.
Hatsue si fece coraggio e lo chiamò: “Mi scusi”.
Hirasaka si voltò.
“Scusi se ciò che sto per chiederle potrà sembrarle strano.”
“Dica,” la esortò a continuare.
“Ecco… Per caso io… sono morta?”
Hirasaka sgranò leggermente gli occhi.
“…Sì, giusto poco fa. Normalmente avrei dovuto dirglielo io, ma capita che qualcuno se ne renda conto da solo, anche se è raro.”
Le rispose in modo così naturale che Hatsue non capiva se dovesse sentirsi sollevata, divertita o compiaciuta per la propria perspicacia.
Il tè era perfettamente equilibrato, né troppo forte né troppo leggero.
Lei aveva sempre pensato che i morti avessero un aspetto ben definito. Un panno sulla testa o il corpo semitrasparente. E invece sentiva ancora i piedi saldi per terra. Così come la consistenza della tazza e il sapore del tè.
Andò a sedersi mentre Hirasaka la seguiva con lo sguardo.
Si mise a riflettere. “Però, vede, avevo sempre pensato che ad accogliermi nell’altro mondo avrei trovato mia madre, mio padre o mio marito.”
E invece aveva trovato quell’uomo a lei sconosciuto di nome Hirasaka. Sul suo volto doveva essere comparsa un’ombra di delusione, perché lui le disse: “Ma no, questo è ancora un luogo di passaggio”.
Hatsue rifletté ancora e poi replicò: “Senta, ma per caso il suo nome è ispirato al luogo chiamato Yomotsuhirasaka, nel Kojiki? Il pendio da cui si accede al mondo dei morti, dove Izanagi si reca alla ricerca di Izanami?”.
Hirasaka sembrava stupito dalla domanda. Era vero che Yomotsuhirasaka era il nome del pendio che collegava il mondo dei vivi a quello dei morti.
“Sa tante cose.”
Hatsue aveva sempre amato leggere ed era curiosissima, queste nozioni di cultura generale erano il suo forte. Qualche volta si vantava di non essere ancora del tutto arrugginita.
“È proprio così. In buona sostanza, questo posto è al confine tra la vita e la morte.”
“E ad aspettarmi ho trovato lei.”
“Già. Proprio nel mezzo.”
“Quindi, non sono ancora finita all’altro mondo.”
“No.”
“E mi dica, signor Hirasaka, lei ha a che fare con il re degli Inferi, per caso? Con qualche divinità? Buddha, forse? Certo, però, che…”
Hirasaka era così calmo e sorridente che stava quasi per sfuggirle il seguito. (Certo, però, che a guardarla non si direbbe!)
Il modo in cui beveva il tè era in tutto e per tutto umano.
“Sono solo una guida. Faccio il possibile per evitare traumi alle persone, perché sentendosi dire di punto in bianco ‘Sei morto’ uno potrebbe mettersi a piangere, deprimersi o strepitare, ed è successo tante volte, mi creda. Quindi, lo studio fotografico funziona un po’ come un ultimo collegamento con la realtà.”
Hatsue si guardò intorno. In effetti sembrava un normalissimo studio fotografico. Certo, se si fosse trovata improvvisamente davanti al re degli Inferi si sarebbe messa a tremare e non avrebbe più detto una parola.
“Ecco perché in questo momento lei indossa i suoi soliti vestiti, signora Hatsue. È importante che il suo aspetto esteriore rifletta il modo di essere a lei più familiare.”
“Che bello, il mio ginocchio è guarito,” disse lei muovendo avanti e indietro la gamba destra, e Hirasaka annuì.
“Se mentre è qui si mette a correre, suderà e avrà il fiato corto. Proprio come quand’era in vita, capisce?”
Hatsue chiuse e riaprì le mani. Era vero, era tutto uguale a quando era viva. Non riusciva a credere che quello non fosse più il suo vero corpo.
“E quindi dovrò spostarmi da qui? Andare nel cosiddetto ‘aldilà’?”
Se proprio doveva andare, pazienza, ma voleva sapere cosa l’aspettava. La agitava non riuscire a immaginare quello che le sarebbe capitato di lì a poco.
“Esatto. Prima, però, vorrei che facesse qualcosa per me.” E così dicendo cominciò a frugare nella grande scatola appoggiata sul tavolo.
Ne estrasse alcuni involti di quelli che sembravano documenti. Ogni involto era chiuso da un foglio di carta bianco. Li tirò fuori uno dopo l’altro, tanti che non riusciva a tenerli con una mano sola.
“Cosa sono quelli? Per caso avrebbe un paio di occhiali? Senza, non riuscirei a leggere niente.”
“Riuscirà a leggerli benissimo, mi creda. Provi a concentrarsi solo sulla vista.”
Così fece, guardò quei fogli che aveva tra le mani, concentrata, e si rese conto di poter mettere a fuoco come mai prima di allora. Era da tempo che non riusciva a distinguere tanti dettagli a occhio nudo.
“Oh…” esclamò Hatsue vedendo cosa aveva in mano.
Fotografie. Una quantità enorme. Non sapeva nemmeno chi potesse averle scattate, raffiguravano una piazza nelle vicinanze della casa in cui abitava da bambina, il padre e la madre da giovani e tante altre scene. Erano fotografie di formato leggermente più grande del solito, e facevano un bellissimo effetto.
“Queste fotografie raccontano la sua vita, signora Hatsue. Una per ogni giorno, trecentosessantacinque per ogni anno. Di anni lei ne ha novantadue, quindi il totale è un numero impressionante…”
Hatsue le sfogliò una a una. E puntualmente le ricordavano qualcosa che aveva dimenticato. L’occhialino che andava a posarsi su un ramo dell’albero di cachi vicino al cancello della loro casa. Le fessure sulla vecchia cassetta del latte. Le strisce di luce che filtravano attraverso lo scorrevole intagliato all’ingresso.
“Ha tutto il tempo, le guardi pure con calma. Vorrei che tra queste scegliesse una fotografia per ogni anno, novantadue in tutto. Ha piena libertà, scelga quelle che le piacciono di più.”
“Scegliere?”
Era perplessa.
Hirasaka aprì la porta sulla destra, quella che dava sul laboratorio, dove si vedeva uno strano telaio in legno. Nel mezzo aveva una specie di piatto destinato a contenere chissà cosa, e il piatto era sostenuto da quattro colonnine. Anche il piedistallo pareva robusto. E poi c’erano delle asticelle simili ai bastoncini di bambù dei diffusori, e delle specie di girandole. Era tutto di legno bianco, grezzo, come se quegli oggetti dovessero ancora essere terminati.
“Lei sceglierà le fotografie e io le userò per la lanterna girevole.”
Hatsue raggelò.
“Cosa? Intende la lanterna girevole che si vede quando si sta per andare all’altro mondo?”
“Esatto, proprio quella.”
“E quindi siamo noi a scegliere le nostre fotografie?”
Hirasaka appoggiò una mano sul telaio in legno.
“Sì, ciascuno può scegliere le fotografie che preferisce.”
“Dunque, ognuno sceglie le foto per la propria lanterna girevole…” ripeté, ancora incredula, Hatsue.
“Con novantadue anni a disposizione, può venir fuori una lanterna coi fiocchi. Non vedo l’ora di mostrargliela.”
Hatsue aveva sentito dire che la lanterna girevole appare quando si è in punto di morte, ma non immaginava che avrebbe avuto l’occasione di comporla lei stessa.
“In effetti, ho saputo di persone che stavano per morire e hanno visto la lanterna.”
“Sì, certo, anche se il numero di quelli che arrivano fin qui e poi riescono a tornare indietro rappresenta una percentuale minima rispetto al totale. Credo però che tutti dimentichino di essere stati in questo studio e di aver scelto le proprie fotografie. Rimane solo un vago ricordo della lanterna girevole. Guardi questa stanza.”
Hirasaka uscì dalla sala d’attesa e aprì la porta dirimpetto.
Proprio al centro di una stanza bianchissima c’era una chaise-longue dall’aria molto confortevole. La stanza perfettamente quadrata era tutta bianca, compresi pavimento e chaise-longue, e sembrava una specie di installazione artistica. Sul lato destro c’era una porta che con ogni probabilità conduceva all’esterno.
“In quella stanzetta l’opera giungerà a compimento, con l’accensione della lanterna girevole. Lo spettacolo sarà riservato unicamente a lei, signora Hatsue. Se lo vorrà, però, potrà consentire anche a me che l’avrò composta di assistere insieme a lei.”
Una lanterna girevole. Si accende la luce e comincia a ruotare. Le immagini del passato, impresse su carta di riso, diventano motivi floreali attraversati da bagliori rossi e gialli, e girano e girano: così se la ricordava.
“E quindi il trapasso non è questione di pochi istanti, come guadare un fiume.”
“Lo definirei la cerimonia finale della nostra esistenza, quella che ci consente di guardarci indietro un’ultima volta.”
Già che c’era, decise di fargli la domanda a cui pensava da tempo.
“E se questo è un luogo di passaggio, che ne sarà di me d’ora in avanti?”
Hirasaka abbassò gli occhi, poi la guardò. Sembrava non trovasse le parole.
“Deve scusarmi. Di ciò che viene dopo, io stesso so qualcosa solo per sentito dire. Non ne ho esperienza diretta. Tutti coloro che hanno proseguito non sono mai tornati indietro.”
Il pensiero di cosa avrebbe trovato dall’altra parte la agitava. Forse si sarebbe semplicemente spenta, estinta.
“Ho sentito che gli spiriti che sono riusciti a completare il ciclo di morte e rinascita si reincarnano in un’altra forma e vivono una nuova vita.”
Hirasaka ritornò nella sala d’attesa e versò dell’altro tè. Lui e Hatsue portarono la tazza alle labbra nello stesso momento.
Sorseggiando il suo tè, Hatsue si mise a ragionare. A un certo punto quella sensazione di calore sulla lingua sarebbe svanita, avrebbe dimenticato ogni cosa… E magari morire significava proprio perdere contezza di tutto questo.
Hirasaka, accortosi forse da una qualche ombra sul suo viso che Hatsue era turbata, le rivolse la parola come per distrarla.
“Penso che quando si troverà dall’altra parte lei non scomparirà del tutto, signora Hatsue. L’anima conserva i ricordi dormienti di tutti coloro che ci hanno preceduto, questo lo so per certo.”
E si interruppe alla ricerca di un esempio, borbottò qualcosa, poi riprese: “Le è mai capitato di incontrare qualcuno per la prima volta e avere la sensazione di conoscerlo già, o che un luogo mai visitato prima le sia per qualche motivo familiare?”.
“Sì, certo,” rispose Hatsue. “Per esempio, anche qui mi sembra di esserci già stata.”
Hirasaka sorrise e ribatté: “Ecco, forse è la sua anima che ricorda. Però, vede, se la nostra vita è troppo piena di rimpianti e di rimorsi, se siamo troppo attaccati alle cose, allora il nostro cammino verso l’altro mondo diventa molto più difficile. E se non riusciamo ad arrivarci, la nostra anima resta intrappolata nello stesso posto per l’eternità”.
Hatsue fece sì con la testa.
“Dunque, signor Hirasaka, ricapitolando: adesso devo scegliere delle fotografie in numero pari a quello dei miei anni e comporre la lanterna girevole insieme a lei, giusto? Poi la guarderò ruotare, troverò la pace e completerò il mio ciclo.”
Aveva ancora del lavoro da fare, quindi. Anche da morta, gli impegni c’erano sempre.
“Una volta arrivati qui, poco conta che uno sia stato un grand’uomo o un miliardario: con noi possiamo portare solo i ricordi.”
Hatsue osservò la montagna di fotografie che torreggiava su di lei. Quanto ci avrebbe messo a guardarle tutte?
“Nell’epoca dei computer e degli smartphone, le lanterne girevoli si costruiscono ancora a mano… Chi l’avrebbe mai detto?”
Le sembrava un po’ strano che, dopo la morte, le si chiedesse di scegliere non degli oggetti o dei video, bensì delle fotografie.
Hirasaka ne prese una dalla montagna che aveva davanti.
“Facciamo una prova usando questa fotografia che ha a che fare con lei, signora Hatsue. Si ricorda dove è stata scattata?”
Gliela passò. Raffigurava una strada in discesa.
“Ah…” Se lo ricordava.
Si vedeva, a perdita d’occhio, un campo attraversato da quella strada in discesa. Un vento sibilante increspava un mare di spighe…
Corse fino in fondo alla strada e sentì il sudore sulle tempie. L’odore secco del vento, sapore di sale sulle labbra. Davanti a sé, in lontananza, vide levarsi in volo, forse sorpreso, un airone. Si allontanò nel cielo azzurro fino a diventare un puntino bianco. Lo guardò finché non lo vide più, il vento le sollevò un lembo del kimono e il sibilo si trasformò in fragore.
Se lo ricordava. Era ancora bambina, e l’estate sembrava destinata a durare per sempre. Il suo corpo era ancora forte, avrebbe potuto correre all’infinito su e giù per quella strada.
“Si è ricordata?”
“Sì, è la strada che passava tra i campi, la facevamo per andare nella città vicino alla nostra. Mi piaceva moltissimo.”
Nel momento stesso in cui si trovò la fotografia tra le mani fu assalita dai ricordi e dalle emozioni.
“E se la ricordava anche prima?”
“No, l’avevo completamente dimenticata. Rimossa. Laggiù ormai hanno costruito dappertutto, è diventata una zona residenziale.”
Hirasaka riprese la fotografia e la guardò.
“È una veduta meravigliosa.”
“Un paesaggio che non esiste più da nessuna parte, però.”
Hirasaka gliela restituì.
“Guardando questa fotografia mi sono tornate in mente tante cose. Tanti ricordi di quel periodo.”
Hatsue osservava attentamente l’immagine. Si accorse che era composta da una miriade di piccoli grani, mille puntini colorati. Era solo una combinazione di colori, e invece i quattro lati di quel rettangolo racchiudevano tutti i suoni, il vento, gli stati d’animo e l’atmosfera del momento in cui la fotografia era stata scattata. Tutto nascosto da qualche parte dietro ai puntini colorati.
“È proprio vero che le fotografie hanno una loro forza,” disse calmo Hirasaka.
Hatsue continuava a guardarla. Era un’immagine senza alcuna ambizione artistica, niente di più che una semplice strada di campagna. Ma anche un paesaggio ormai perduto, che non esisteva più in nessun altro luogo. Una fotografia di poco conto, che tuttavia per Hatsue era qualcosa di estremamente prezioso.
Hirasaka la invitò a sedersi per selezionare le fotografie. Lei le prese dagli involti, una per una, e cominciò a disporle davanti a sé. Ma ogni fotografia assorbiva a tal punto la sua attenzione che faticava ad andare avanti. A mano a mano che le sfogliava, si accorgeva di aver dimenticato tante cose. E di non ricordarsi nemmeno di averle dimenticate – per quanto ovvia le apparisse quest’affermazione. C’erano episodi che aveva rimosso, cose del cui aspetto non aveva più memoria, ma che le tornavano in mente quando le rivedeva.
Nel mentre, Hirasaka si teneva abbastanza lontano da non darle fastidio, ma anche abbastanza vicino da trovarsi pronto nell’eventualità in cui avesse avuto qualche domanda da fargli. Aprì la porta del laboratorio e cominciò ad allestire il telaio della lanterna. Si preannunciava di dimensioni notevoli, difficilmente un uomo solo avrebbe potuto trasportarla; d’altronde, avrebbe contenuto novantadue fotografie. Novantadue fotografie erano una bella sfida.
Già guardarle e sceglierle era piuttosto faticoso, e per dirla tutta Hatsue non era tanto sicura di riuscire a passare in rassegna ogni singolo involto contenuto nella scatola.
Quando era arrivata suppergiù all’equivalente di sette anni, Hirasaka si avvicinò.