“Questo libro parla di un viaggio, sia fisico che spirituale, fatto di esperienze e sentimenti, svolto in tanti anni e attraverso cento luoghi, eppure senza tempo e immobile.
Un tuffo profondo nell’anima umana. La vita mi ha portato a testimoniare sofferenza e crudeltà.
Era stata una mia scelta, e il mio compito era combattere quella crudeltà e alleviare quella sofferenza”.
Pathos è il primo libro del fotografo svizzero di origine italiana Giorgio Negro nato sei decenni fa.
Un primo libro, e un colpo da maestro, tutto è così vivo, che si tratti dei soggetti rappresentati o dell’inquadratura, cruda, ferma, di puro contatto.
Sensualità di immagini, bianco e nero, carne, vita nuda.
Impressione di vita diretta e gusto del corpo a corpo, lontano dal distanziamento sociale, nuovo totalitarismo del 21° secolo.
Qui tocchiamo, respiriamo, sudiamo e gettiamo docce di saliva sul cane di passaggio, sul bambino, sulla sorellina, sulla concubina, sul fotografo.
Non temiamo le bellezze carnali del film analogico, senza rifiutare il gioco flessibile della crittografia digitale.
Messico, Cuba, Perù, Brasile, Ecuador, questi sono i paesi incontrati da Giorgio Negro, che rivela in tutta la loro forza precapitalistica, indigena in qualche modo.
Nessuna morale, ma la danza ininterrotta del bene e il suo contrario, frammenti di realtà colta alla maniera di Orson Welles: sete di esistenza, sete di pelle, sete di mistero, sete di male.
Nessuna spiegazione, ma l’irriducibile, fondamentale discorso visivo.
Siamo qui dalla parte del barocco e dell’espressionismo, della vita carnevalesca in senso ontologico, o della spesa alla maniera di Georges Bataille.
Volti, animali, paesaggi formano Pathos, questa parola greca per sofferenza, così vicina al nome di quest’isola dove San Giovanni pensò all’Apocalisse, Patmos.
C’è molta vita qui, perché ci sono molte persone morte e fantasmi inquietanti intorno a te.
Manda la musica, probabilmente non saremo qui domani.
Pregate cari fratelli, i missionari cristiani vi hanno derubato delle vostre convinzioni e della vostra salvezza.
Tutto è bello, così poetico e molto velenoso.
Un cane giace nel fango. Vivo o morto?
Baciami, gringo, ti voglio, sei la mia felicità e la mia maledizione.
Il cielo è in fiamme, la pioggia è in fiamme e solo gli uccelli migratori avranno la forza di fuggire.
La tua faccia è fasciata, ululi alla luna, sei sradicato.
Un uomo tiene dolcemente la testa di una pecora, prima di macellarla senza crudeltà.
Noi umani dormiamo nelle strade, o nella giungla, e siamo le bestie di un vano sacrificio.
Nel nonsenso che è sorto, c’è un fotografo, attento, che cerca l’ordine nel disordine.
Quasi ovunque sul pianeta, solitario e fraterno, Robert Frank ha dei bellissimi bambini.
Racconta Giorgio Negro del suo lavoro:
“Quasi senza alcun risultato, e con mia massima frustrazione.
Il lavoro umanitario ha messo a dura prova la mia anima.
La fotografia è poi diventata la mia fuga curativa, un modo per parlare senza parole alle persone, come un ponte, comunicando solo attraverso i sentimenti condivisi e le sensazioni comuni.
Mi ha portato a riconciliare la mia anima con ciò che era fuori di me; con l’umanità; con la natura; con la vita.
Ogni atto di scattare una foto è stato un istante di sollievo, anche se solo un centesimo di secondo. È stato anche il momento finale di un lungo processo di tendere nuovamente la mano e avvicinarsi al resto del mondo, delle sensazioni fisiche, mai provate.
Preparando questo libro, con la mente che vagava ancora per tutte quelle esperienze e atmosfere, qualcosa di casuale mi ha fatto pensare a ciò che era stato così importante per me nella mia fotografia.
Era stato il pathos.
Quella parola, così importante nel mondo greco antico, nella nostra cultura mediterranea, che è vivere emozioni, passioni e sofferenze profonde.
E allo stesso modo la capacità di ispirare emozioni in un’altra persona attraverso un appello empatico.
Pathos è stato il mio fedele compagno durante tutto il mio viaggio fotografico.
L’ho sempre sentito intorno a me quando vagavo per il mondo, macchina fotografica in mano.
Immagino di non aver mai scelto i soggetti delle mie immagini, loro hanno scelto me. Avevano il potere magico di attrarmi, di evocare in me ogni sorta di sentimenti.
Una chiamata a cui non ho potuto fare a meno di rispondere.
Ho camminato a lungo, ascoltando le voci e le emozioni che accolgono i miei passi; la bellezza ambigua ma indimenticabile degli angeli caduti, mentre diavoli sorridenti mi strizzavano l’occhio da dietro un angolo; tante ombre e tanti raggi di sole; uno specchio che mi rimanda riflessi di tenerezza e compassione, timidezza e passione, desolazione e gioia.
PATHOS (dal greco πάσχειν “paschein”, letteralmente “soffrire” o “emozionarsi”) è una delle due forze che regolano l’animo umano secondo il pensiero greco.
Esso si oppone al Logos, che è la parte razionale.
légο (λέγω), che significa scegliere, raccontare, parlare, pensare
Il Pathos infatti corrisponde alla parte irrazionale dell’animo.
Esso può avere sia connotazione positiva, sia negativa a seconda del contesto
Può indicare, quindi, sia il sentimento come affezione dell’animo, sia un effetto-mezzo utilizzato per creare la partecipazione empatica del pubblico (συμπάθεια “sumpatheia”, letteralmente “conformità di sentire” o “simpatia”).
Per gli antichi greci questa “forza emotiva” era strettamente collegata alle realtà dionisiache o comunque dei riti misterici. Per questo il Pathos indicava tutti gli istinti irrazionali che legano l’uomo alla sua natura animale e gli impediscono di innalzarsi al livello divino.
CONTRAPPOSIZIONE NETTA RISPETTO A LOGOS
Secondo Martin Heidegger nella lingua greca antica i verbi parlare, dire, raccontare si riferivano non solo al sostantivo corrispondente logos ma anche al verbo leghein che significava anche conservare, raccogliere, accogliere ciò che viene detto e quindi ascoltare.
Nello sviluppo della cultura occidentale, a suo parere, il valore del pensare e del dire ha prevalso su quello dell’ascoltare mentre l’udire e il dire, come si riproponeva sono entrambi essenziali: «L’udire autentico appartiene al logos.
Perciò questo udire stesso è un leghein. In quanto tale, l’udire autentico dei mortali è in un certo senso lo stesso logos».