GLI ZOMBI DI PERIFERIA
I nuovi quartieri di Mosca hanno nomi che finiscono in «vo»: Beliaievo, lassenevo, Certanovo, Novoghireievo, Medvedkovo, Biriuliovo, OrekhovoBorissovo, Bibirevo, Golianovo. E sono, per l’intellettuale moscovita, ciò che è il Tibet per i Lama. Testo di Vladimir Sorokin Non posso fare a meno di associare questa desinenza all’esclamazione popolare «vo!!!» (ma guarda un po’), in cui si combinano stranezza e minaccia, servilismo e buffonaggine, in breve tutto ciò che costituisce l’essenza della mentalità contadina che nel nostro Paese resta predominante. Sarebbe, in fondo, piuttosto giusto vedere nella Russia d’oggi un Paese di contadini urbanizzati: la maggior parte delle città sovietiche è in effetti popolata da contadini che, negli ultimi cinquant’anni, hanno levato l’ancora dai loro villaggi in decomposizione per affluire nelle città. Mosca e i suoi quartieri che a partire dal dopoguerra, sono cresciuti come funghi essenzialmente per ospitare questi sradicati, non fa eccezione alla regola. Le loro dimensioni sono letteralmente agghiaccianti. Riuniti, tutti questi MedvedkovoBiriuliovo potrebbero contenere tredici volte la Mosca di un tempo, racchiusa nei confini della Cintura dei Giardini. Comicamente i nuovi quartieri sono ufficialmente definiti «microsettori». E un’immensa parte di essi è abitata dai contadini di ieri, che, fuggiti a testa bassa dalla vita di miseria dei kolkhoz, si sono fatti assumere nelle officine di Mosca e dopo lunghi anni di pesante lavoro, hanno ottenuto la propiska [registrazione; diritto di residenza] dei loro sogni, che permetteva di accedere permanentemente (ma davvero permanentemente?) al salame, al burro, alla carne. I nuovi quartieri della maggior parte delle città sovietiche si somigliano fino alla nausea. Di regola, si tratta di «edifici-tipo» costruiti su terreni incolti o destinati a sostituire villaggi rasi al suolo. Questi stabili-conigliere edificati rapidamente (in un arco di tre-cinque anni), hanno in comune un’assenza totale di ricerca architettonica e si differenziano solo per il numero di piani, che cambia contemporaneamente ai dirigenti del potere, ma continua a progredire costantemente: quattro all’epoca di Krusciov, sei e otto sotto Breznev, poi quindici e anche ventitré. Le battute sull’anonimato e l’uniformità dei nuovi microsettori sono innumerevoli. Come questa strofa, popolare un tempo tra i conducenti di taxi: Ti condurrò nella tundra / e anche a Ivanovo. / Ti condurrò dove vorrai, / ma non a Certanovo. E, in effetti, non è difficile perdersi nei nuovi quartieri. Un film di Riazanov è basato su un fatto curioso ma vero: il protagonista, che vive a Mosca, in via della Costruzione (romantico, non è vero?), si ritrova, completamente ubriaco, in un aereo per Leningrado; là, ridiventato lucido, sale in un tassi, da il suo indirizzo al conducente che lo sbarca in una via della Costruzione in tutto e per tutto identica a quella di Mosca. Anche lo stabile è lo stesso. Perfino le chiavi, che aprono la porta dell’appartamento. L’INVASIONE DI MOSCA I nuovi quartieri di Mosca sono essenzialmente abitati da limitciki – persone che sono fuggite dalla provincia e si sono fatte assumere nelle industrie moscovite con un «limite», cioè per due o tre anni, senza il diritto di optare per un’altra ditta; di solito, dopo circa sette anni di inferno negli alloggi dei lavoratori, essi formano una famiglia e ottengono, grazia suprema dello Stato, un appartamento individuale, lontano, in una periferia atroce, per esempio a Lianozovo. I limitciki sono considerati, a Mosca, come esseri inferiori. I moscoviti li squadrano con disprezzo, a causa della loro aria da bifolchi, del loro accento provinciale e anche delle mostruose file d’attesa nei negozi, che, senza di loro, sarebbero sicuramente dieci volte più corte. «Hitler non è riuscito a prendere Mosca, i limitciki sì!», scherzano malignamente i moscoviti. «E da lì che vengono le nostre disgrazie» dicono spesso, durante le code, i moscoviti di mezza età. Tuttavia, va detto che i limitciki stessi, dopo aver trascorso cinque anni a Mosca, si sentono totalmente moscoviti e cominciano a insultare i nuovi arrivati, a definire «canaglie» dei giovani che forse sono nati nel loro stesso villaggio. Di fatto, i limitciki non sono un fenomeno recente. I primi sono comparsi a Mosca a metà degli anni ’30. Erano, per la maggior parte, impiegati nella costruzione della metropolitana, nelle industrie e in altri edifìci amministrativi – altrettante realizzazioni definite, all’epoca, «cantieri della Gioventù comunista». Ormai divenuti anziani, essi raccontano gli orrori e i sacrifici che hanno dovuto sopportare per avere il diritto di abitare in un appartamento con l’acqua calda e di comprare al negozio delle galline di Ungheria. Ad esempio, i genitori di uno dei miei amici, che erano fuggiti dal kolkhoz alla fine degli anni ’30 e avevano trovato lavoro alla ZIL, la grande fabbrica di automobili, non avevano potuto ottenere neanche una camera in un alloggio per lavoratori. Allora hanno corrotto il gestore di un immobile, scavato una cantina con il suo permesso e lì sono vissuti in sei, senza alcun comfort, fino al 1955. Stranamente, il mucchio di terra che hanno prodotto durante questi lavori è ancora lì, vero e proprio monumento alla loro ostinazione contadina. Un’altra famiglia, formata da quattro persone, è vissuta per diciotto anni in una stanza dell’alloggio per lavoratori dell’industria in cui lavoravano, con la figlia che, fino all’età di diciassette anni, ha condiviso il letto con sua madre. Ma, per quanto riguarda le difficoltà, i limitciki di oggi non hanno nulla da invidiare ai loro predecessori. Un film documentario uscito di recente e intitolato Limita [sinonimo di limiticiki], in cui gli autori presentavano alcune scene di vita dei limitciki, ha letteralmente sconvolto i moscoviti: sullo schermo, dei giovani raccontavano la loro esistenza di schiavi, le angherie inflitte dal caposquadra dell’industria in cui lavoravano («si è formato un harem di limitcikidonne»), i furti quotidiani negli alloggi per i lavoratori, la prostituzione, l’alcoolismo, la tossicomania (aspirano colla, benzina, diversi prodotti di drogheria…) e tutto questo per vivere nella capitale. L’EDIFICIO IN SE STESSO Tuttavia i limitciki non sono i soli ad abitare nei nuovi quartieri. L’intellighenzia si ritrova lì a poco a poco, insieme a persone semplicemente agiate (che si occupano principalmente di commercio), che comprano dallo Stato un appartamento cooperativo. Ci vivo anch’io – a lassenevo -, in uno stabile cooperativo di quindici piani, a soli cinquanta metri dalla Cintura di Circonvallazione che divide implacabilmente il mondo tra Mosca e non-Mosca. Una volta superato questo stretto nastro d’asfalto, si trovano già le foreste di betulle dei dintorni di Mosca; comincia la non-Mosca, ovvero la Russia e il suo spazio non moscovita (neve, neve ancora neve), il suo tempo non-moscovita (l’eternità, il nulla del tempo), i suoi problemi nonmoscoviti (dove scovare del salame?). Passeggio raramente nel mio quartiere, preferisco attraversare la strada e andare nella foresta, da dove le scatole bianche degli edifici, ammucchiate le une contro le altre, appaiono particolarmente estranee. Ma oggi, ho un pretesto per una passeggiata a lassenevo. Mi vesto pesantemente e prendo l’ascensore. Fuori si gela (siamo alla fine di novembre), nevica e c’è vento (c’è sempre vento a lassenevo, la zona più elevata di Mosca). Su una panchina ghiacciata, all’ingresso dello stabile, sta, rigida come una statua, un’anziana donna con un bastone. Di queste vecchie immobili, ce n’è una ad ogni ingresso. Con ogni tempo, esse escono dalla loro tana per «passare un momento di fronte alla casa», perpetuando così l’usanza contadina ereditata dalle loro nonne che, cinquant’anni fa, appoggiate ai loro bastoni, facevano delle lunghe soste sullo scalino d’ingresso della loro isba, individuando e seguendo con lo sguardo, senza dire neanche una parola, ogni passante. Supero la nonna e imbocco il cammino tortuoso che costeggia gli stabili. In pieno pomeriggio, la gente che va a passeggio è rara. Molta neve, invece, ghiaccio e bambini che fanno crollare con gran rumore un monticello gelato. Neve e muri di edifici, muri di edifici e neve. Mi inerpico sulla collina e getto un’occhiata al panorama. La prima idea che si forma quando si guardano queste costruzioni è che esse siano state costruite non da uomini, ma da una macchina statale senza volto. I grattacieli stalinisti producono la stessa impressione, soprattutto l’Università, grandioso monumento dello stalinismo. Ogni volta che vado a passeggio sui Monti Lenin, mi dico, assiderato, che no, decisamente, quest’edificio non è stato creato da uomini né per gli uomini, ma piuttosto dallo Stato e per lo Stato. E questa sensazione mi abbandona solo progressivamente, man mano che mi avvicino all’Università, quando scorgo finalmente delle minuscole finestre, un’entrata nascosta dietro le colonne e, ormai quasi sul posto, degli uomini-formiche. Che peccato che della gente vi studi! Sarebbe molto meglio se l’edificio esistesse per se stesso e in se stesso, senza nessun essere umano, temibile simbolo di pietra dello Stato stalinista, una sorta di Ding an sich [In tedesco, l’espressione, specifica del linguaggio filosofico, significa «cosa in sé». È vero che gli edifici di lassenevo non hanno la solennità dei colossi di Stalin, ma sono anch’essi costruiti dallo Stato e non dagli uomini, dal momento che mai questi ultimi avrebbero edificato qualcosa di simile per se stessi. No, è lo Stato l’autore; tuttavia, non li ha eretti per sé, come l’Università, ma per il popolo. Questa architettura infernale mostra molto bene che l’uomo non è considerato, da noi, come individuo, ma come parte di una massa biologica battezzata «popolo» e che Io Stato tratta come un panettiere la sua pasta da pane, torcendola, stendendola, dandole la forma che più gli piace… NEL REGNO DEI MORTI Scendo dalla mia collina e mi dirigo verso il negozio di alimentari, l’unico e solo della nostra via Odoievski, dove vivono circa ottomila persone. È un negozietto di vecchio tipo, senza casse per il pagamento, ma con tre venditrici sonnolente, al punto che le si direbbe congelate nei loro camici di un bianco sporco, infilati su grossi pullover (è vero che fa piuttosto fresco). Al di sopra del banco, un manifesto sbrindellato, che rappresenta Lenin nell’atto di scrivere. Sullo stesso banco, dei pesci conservati, margarina, un inverosimile salame e un enorme cubo di burro giallo. Nel settore panetteria, degli scaffali di legno scheggiato, vuoti, e una commessa che legge la «Pravda». «Non c’è pane?» chiedo, stupidamente. Senza alzare la testa ne muovere un solo muscolo, la commessa biascica, alla fine di un lungo silenzio: «Lo consegnano alle cinque». I compratori, in quattro, formano una fila muta nel settore macelleria. Come ipnotizzati, guardano la venditrice dai gesti lenti come quelli di una sonnambula, tagliare un pezzo di quel salame indefinibile, posarlo su di una bilancia antidiluviana, aggiungere un contrappeso e seguire con occhio torvo l’ago oscillante. «Un rublo e venticinque», sembra dire a se stessa, poi riprende il pezzo di salame dalla bilancia e lo avvolge, senza fretta, in una spessa carta marrone. Le si da il danaro, lo prende senza guardare l’acquirente e, allo stesso modo, porge il salame. Tutto qui sembra fossilizzato, come se i presenti fossero altrettanti defunti usciti dalla bara per compiere un rito strano quasi inutile. Tutto sembra sprofondato in un sonno prolungato, interminabile. Un inserviente dal viso tondo e gonfio, vestito con una giacca imbottita sporca, entra spingendo un carrello contenente cartoni di latte; è l’ultimo tocco a questo quadro fantomatico. Perché lo fa? Impossibile dirlo. E perché proprio del latte? Al suo posto starebbero ugualmente bene delle teste umane congelate o dei pupazzi di metallo ghignanti. Il suo viso consunto dall’alcool è morto, inerte. L’inserviente abbandona il latte, fa dietro-front e se ne va. Esco dal negozio e, per la strada, il contatto con la natura russa, fredda, gelata, rafforza ulteriormente in me l’impressione che intorno la vita sia finita. E mi ritorna in mente Sologub [Poeta simbolista (1863-1927); celebre autore del romanzo “Il demone meschino”.]: “La strada era morta, le case apparivano ricoperte da un sudario brillante, sontuoso e crudele, simile ai drappi di broccato d’argento di una bara di lusso, là dove i raggi del sole colpivano la neve.” Cammino nel regno dei morti. Ed ogni arbusto, l’angolo di ogni casa, ogni donna anziana sulla sua panchina mi conferma che ho guardato il fiume Lete. Ma perché non ho paura? Perché non sono più vivo di quella vecchia immobile, di quell’inserviente dal viso gonfio, di quegli acquirenti che facevano la fila. Sono morto, anch’io, perché sono nato e cresciuto qui, tra queste nevi senza vita, sotto Io sguardo implacabile di uno Stato senza misericordia. Sono un abitante legittimo di questo regno, partecipo a questa vita inumana e ai suoi cupi rituali… Oltrepasso un intero gruppo di immobili. Il crepuscolo viene a concludere la breve giornata invernale, si accendono sporadici riverberi, il grande momento del giorno si avvicina – le diciotto, l’ora di punta, quella in cui gli abitanti di lassenevo rientrano dal lavoro. Le fabbriche di Mosca chiudono alle 17, ma per ritornare dalla ZIL, o da altri luoghi, fino alla nostra lontana terra promessa, bisogna calcolare circa un’ora di viaggio. Non c’è ancora la metropolitana per lassenevo, la stazione più vicina è quella di Tioply Stan, da cui partono, in questo momento, verso tutte le direzioni, autobus che avanzano a fatica, strapieni. Mi piazzo alla fermata di Via Golubinskaia, aspetto circa un quarto d’ora ed ecco apparire la prima rondine che annuncia l’ora di punta, eccolo, il primo autobus arancio, con i fianchi inzaccherati di neve. Avanza a fatica e si ha paura di guardare nell’interno dove, come aringhe in un barile, si accalca gente sfinita. L’autobus si ferma, le porte si aprono cigolando e la massa biologica grigio-bruna si riversa sulla neve. Arriva un secondo autobus, poi un terzo e mi trovo, ben presto, al centro di una folla compatta, che, con un’ostinazione muta, si muove verso l’edificio illuminato del supermercato, oasi di speranza nelle tenebre degli stabili coperti di neve. Nella folla, i volti si confondono – limitciki, intellettuali, studenti – e vi si leggono soltanto stanchezza e disagio. All’ingresso del supermercato, si opera una divisione tra i sessi, rapida e silenziosa: le donne si precipitano nel settore alimentare, gli uomini in quello dei vini, che, grazie alla campagna anti-alcoolismo, è ormai stato separato. In quanto uomo, mi dirigo automaticamente anch’io in quel settore, osservando attraverso la vetrina le donne che si gettano sui pacchetti di salame, burro, formaggio, che sgraffignano cavoli o sacchetti di patate sotto il naso di quelle che stanno lì con la testa fra le nuvole. La coda degli acquirenti nel settore dei vini – un centinaio di persone – si snoda attorno ad un monticello di casse per legumi rotte, si arrampica verso le grandi porte di ferro spalancate. Nei gesti della gente, lo stesso automatismo di morte. La fine della coda è quasi immobile, il vento è freddo, l’oscurità e la neve accentuano l’aspetto di cadaveri gelati di coloro che attendono; è solo avvicinandosi alla porta al di là della quale si trovano tutti i loro desideri che gli acquirenti cominciano a sgelarsi, a muoversi mollemente, a spingersi perfino a rubacchiare qualche cosa, ma questa agitazione improvvisa non li rende comunque più vivi, anzi essa sottolinea la loro inerzia, la loro indifferenza, il loro distacco da se stessi. Sulla soglia della porta, un blando litigio; le voci sono basse, voci d’oltretomba. «Che spingi a fare, porco Dio?». «Ma insomma, ero prima di te!». «Assolutamente noi Tu non hai fatto la fila!«Sono un invalido di guerra.». «E allora? Io ero con i partigiani. Ferito due volte!». «Ehi, ragazzi, non lasciate passare nessuno che non sia stato in fila! Ci sarà vino per tutti.». «Tentar non nuoce! Tieni, fuma!». Superando ogni difficoltà, respingendo gli assalitori, dei fortunati tornano indietro dal luogo dei loro sogni stringendo fra le braccia delle bottiglie di infame vinaccio. «Cosa vendono oggi?». «Del vino a tre rubli». «Ce n’è anche per noi?». «Ne restano due casse.» DICHIARAZIONE D’AMORE La strada piena di neve, le sagome scure, le bottiglie che mandano smorti luccichii; nella notte, il freddo. E tutte le sere è la stessa cosa, da anni, da decine di anni. Ciò non toglie che in un certo qual modo, questo mi riscaldi il cuore. Perché? Perché tutta l’esperienza dell’avanguardia letteraria e artistica di Mosca dimostra che gli autori emarginati non potrebbero trovare luogo di residenza migliore di questi nuovi quartieri, di queste zone immerse nel nulla come il mio lassenevo, dove, attorno al loro tavolo di lavoro o al loro cavalletto, si estendono per chilometri intorno, le nevi, l’assenza di tempo e il vuoto sociale dove nulla li distrae dal loro compito. Ma non è pesante, alla lunga, vivere in queste zone senza vita? E pesante per colui che si accontenta di vivere Per chi crea, invece, questo vuoto è appagante, permette di concentrarsi. Non c’è luogo migliore per osservare la società e questi nuovi quartieri sono, per gli artisti emarginati, come le cime tibetane per i Lama: si vede lontano, si capiscono molte cose. Senza contare, poi, che si tratta di settori di isolamento in cui ci si sente al riparo dalla vita reale, *viva*, al riparo dalla cultura ufficiale, dalle speranze e dalle illusioni. Nei nuovi quartieri vivono Kabakov, Prigov, Monastyrski, Syssoiev, Cuikov, Gundlakh, Zvezdocotov, Gorokhovski, Ovcinnikov, Zakharov, Volkov, Anufriev, Pepperstein, Gandlevski, Popov, Baitov, Bakstein, Jigalov, Abalakova, Albert, Stolpovskaia, Roshal, Shablavin, Sukhotin, Lebedev, Orlov, Panitkov, Barach. E questo li ha aiutati? Indubbiamente. In questi ultimi quindici anni hanno creato opere notevoli, sia nel campo artistico che in quello letterario, hanno praticamente resuscitato l’avanguardia moscovita annientata da Stalin all’inizio degli anni ’30. E tu? Il tuo lassenevo ti è stato di una qualche utilità? Ma certamente! Ho scritto sei libri. Se avessi vissuto al centro di Mosca, ne avrei scritti tre volte di meno. Allora sei riconoscente a questo freddo e a questi edifici-conigliere? Si sono riconoscente a questo freddo e a questi edifici-conigliere. Ti piacciono queste panchine ghiacciate e le eterne donne anziane che vi seggono? Sì, mi piacciono queste panchine e le eterne donne anziane congelate. Ti piacciono anche gli scaffali vuoti dei negozi? Mi piacciono gli scaffali vuoti dei negozi. I cumuli di neve all’ingresso degli stabili e i cadaveri ambulanti? Sì, mi piacciono i cumuli di neve, il ghiaccio, i cadaveri ambulanti, l’assenza del tempo. Per dirla con poche parole, ti piacciono i nuovi quartieri di Mosca? Ebbene sì, mi piacciono i nuovi quartieri di Mosca. T piace lassenevo? Mi piace lassenevo. Ti piace Beliaievo. Mi piace Beliaievo. E Certanovo? Sì, Certanovo. E anche Biriuliovo. Ti piacciono Novoghireivo, Medvedkovo, Orekhovo-Borissovo? Mi piacciono Novoghireivo, Medvedkovo, OrekhovoBorissovo, Bibirevo, Golianovo. Mi piaccono Bykovo, Orlovo, Vasnetsovo. Mi piacciono Kabakovo, Frigovo, Syssoievo, Nekrassovo, Jigalovo, Monastyrskoio. Mi piacciono Shablalovo, Lebedevo, Baksteinovo. Mi piacciono Baitovo, Bulatovo, Cuikovo, Popovo. Mi piacciono Erofeievo, Sakharovo, Panitkovo [Nomi costruiti su quelli degli artisti, amici dell’autore, citati in precedenza, o di personalità conosciute.]. Mi piacciono Ivanovo, Petrovo, Sidorovo [Ivanov, Petrov, Sidorov sono sicuramente i cognomi russi più comuni]. Ivanovo, Petrovo, Sidorovo. MOSKULTPROG: A SPASSO PER LE PERIFERIE TRA PASSATO E FUTURO DI MOSCA Mosca – Mosca, un’afosa giornata d’estate. L’appuntamento è per un sabato mattina alle 11, nei sotterranei di una stazione del metrò: il luogo più semplice e sicuro per incontrarsi in una città che oggi va smarrendo sempre più i propri punti di riferimento. Per riconoscersi basta un’occhiata: chi salta una corsa e ha l’aria di aspettare qualcosa è certamente dei nostri. Non siamo a un happening situazionista né a una flash-mob no-global, ma a un incontro del gruppo MosKultProg (Progulki po Moskvye), che da un paio d’anni organizza passeggiate culturali gratuite attraverso la storia e l’architettura di Mosca. Ci puoi trovare studenti, insegnanti, architetti, appassionati di urbanistica e storia, fotografi, semplici curiosi: di solito un centinaio di persone, ma vanno aumentando. A unirli è la passione per l’esplorazione dei margini della megacapitale russa, per il passato di un mondo che oggi cresce, si trasforma e muore a ritmi da record. Usciti in superficie il panorama è dei meno attraenti, ricorda i cliché dell’edilizia sovietica sommati a uno scenario da film di fantascienza: rettangoli in cemento accostati a ciclopici grattacieli freschi di pittura dal bizzarro stile eclettico, in uno spazio privo di rilievi naturali. Siamo a Maryino, quartiere periferico esemplare della nuova Mosca e delle sue contraddizioni, che conta più di mezzo milione di abitanti. “Per molti moscoviti – esordisce Sergei Nikitin, ideatore del progetto ed esperto di sociourbanistica, incamminandosi lungo enormi boulevard assolati seguito da una fila disciplinata che fotografa e prende appunti tra l’incredulità dei passanti – questo è un posto orribile e privo di storia. Ma non è così”. Svelatore dei segreti di Maryino è Vadim Zudkin, nostra guida locale: 45 anni, ingegnere, abita qui dal 1990. “Maryino – dice – nasce alla fine degli anni 80, in piena perestroijka, sul sito dove a fine 800 si trovavano enormi bacini per la depurazione dell’acqua destinata a dissetare i moscoviti”. Prima tappa del tour è proprio un relitto di quei tempi, visione onirica tra gru e cantieri: una vecchia casa coloniale in legno sormontata da arabeschi, tra le pochissime rimaste in piedi a Mosca. Ora in completo abbandono, ospitava i lavoratori degli impianti. A breve distanza le ruspe lavorano alacremente intorno al nuovo megamercato “Eldorado”. Per costruire Maryino, spiega Nikitin – che è professore di storia dell’arte all’Università Pedagogica di Mosca – vennero interrati i bacini, dimenticando che il sottosuolo era fortemente inquinato dalle sostanze chimiche usate per la depurazione. Oggi l’intera periferia di Mosca, in verità, posa su terreni contaminati: in uno spazio che all’origine si trovava al di fuori della cerchia urbana, in epoca sovietica sorsero laboratori chimici e persino depositi di scorie nucleari, poi inglobati dall’espansione edilizia intensiva degli ultimi decenni. Gli Ottanta sono gli anni in cui inizia la spaventosa crisi degli alloggi che ancor oggi affligge la capitale russa: nessuno vuole più vivere nelle vecchie case comuni sovietiche, ciascuno sogna un appartamento per sé, anche piccolo (la media attuale resta di due stanze per famiglia). A Maryino, ricorda Vadim, il crollo dell’Urss capita nel bel mezzo dei lavori: la sua costruzione viene ripresa agli inizi dei Novanta, l’età della transizione. Nel 2000 arriva la metropolitana, un evento straordinario: i prezzi salgono e la zona diviene ideale per alloggiare una popolazione urbana in crescita vertiginosa, raddoppiata negli ultimi 15 anni (oggi supera i 10 milioni). Il quartiere diviene mecca della nuova “classe media russa”, grande chimera dei sociologi: appartamenti nuovi e spaziosi dotati di ogni comfort, ampi parcheggi, supermercati, scuole, chiese, cinema, persino un po’ di natura che i maryinensi strappano al deserto suburbano facendo riemergere gli antichi laghetti (incuranti della minaccia ambientale). “Una novità enorme rispetto ai vecchi quartieri-dormitorio sovietici (spalnyi raion)”, fa notare Vadim. Ma come allora, la maggioranza degli abitanti delle periferie lavora in centro. “Maryino può considerarsi la periferia-simbolo degli anni Ottanta e Novanta per Mosca”, chiosa Nikitin. Ogni decennio di storia sovietica ne ha avuta una, sviluppatasi intorno al nucleo del centro storico dominato dalla cittadella medievale del Cremlino: prima la cintura staliniana, poi la krusceviana e infine la brezneviana. Ciascuna diede grande impulso all’edilizia popolare: i megakombinat fino a 22 piani, con i primi minuscoli appartamenti privati, sono presenti ovunque, ma nella seconda fascia dominano le “Khrushchevyi”, tipiche palazzine a 5 piani prefabbricate con materiali di scarsa qualità, dai soffitti bassissimi (facilmente evacuabili in caso di attacco nucleare). Ne vediamo anche a Maryino: “A Mosca sono ancora tantissime – precisa Nikitin – e costituiscono un enorme problema: rinnovarle è impossibile, dovranno essere tutte abbattute con costi altissimi”. L’abbattimento degli altri condomini sovietici non è ancora in questione, perché la domanda di alloggi è altissima. Ma lo sarà forse tra 10 o 20 anni: “Tutte queste costruzioni, follia del socialismo, non erano fatte per durare”. Anche le periferie però hanno una storia da preservare: “Con i nostri tour ricordiamo che quartieri come Cheremushki, nato subito dopo la morte di Stalin, avevano una presa fortissima sull’immaginario popolare, comparivano in tutti i film dell’epoca. Le periferie sono un pezzo fondamentale dell’identità di Mosca, e stanno alla base di molta elaborazione culturale, sociale e identitaria sovietica”. Inoltre conservano straordinari tesori architettonici pre-sovietici miracolosamente sopravvisuti fino ai nostri giorni: “Nelle nostre passeggiate mostriamo, anche a decine di chilometri dal centro, pezzi di architettura modernista accanto a relitti art nouveau, villette zariste e piccoli edifici del primo novecento di cui Mosca è disseminata”. Ogni quartiere è in effetti un grande palinsesto storico-artistico: meno eclatante forse dello splendore zarista di Pietroburgo, Mosca è uno straordinario laboratorio di stili, epoche e tendenze, che attira studiosi da tutto il mondo. Ma oggi è gravemente minacciato. In pieno centro sopravvivono anche le kommunal’ke, celebri appartamenti in coabitazione che Lenin requisì ai borghesi ricchi distribuendo una stanza a famiglia, protagoniste di tanta letteratura e quintessenza di tutto ciò che il cittadino postsovietico detesta. In Russia ne rimangono un milione. La privatizzazione e la creazione di un (selvaggio) mercato immobiliare, se non hanno risolto il problema degli alloggi, stanno ridisegnando radicalmente la mappa sociale di Mosca, costringendo migliaia di vecchi residenti del centro storico a trasferirsi in periferia dove i prezzi sono più abbordabili. Creando in centro dei ghetti per ricchi, le nuove élite russe alle quali i costruttori offrono nuovissimi appartamenti, negozi e uffici di superlusso, eretti sulle rovine del passato. Principale artefice di questa rivoluzione urbanistica è l’amministrazione comunale, guidata dal 1992 dal popolare sindaco Yuri Luzhkov, “il demolitore”. In 12 anni le politiche edilizie da lui sponsorizzate hanno visto abbattere, o lasciar perire per incuria nel solo centro 2000 costruzioni, di cui almeno 400 edifici storici, alcuni risalenti al XVII secolo. Anzi 650, secondo un libro appena pubblicato per iniziativa dell’ex ministro delle finanze Boris Fyodorov, Cronaca della distruzione della vecchia Mosca. 1990-2006, che nella prefazione parla di “pogrom culturale” e “crimine contro il patrimonio”. Strategia più frequente usata dalle grandi compagnie costruttrici, ci spiega Rustam Rakhmatullin – giornalista e coautore del volume con K. Mikhailov, da anni firma su Izvestija la rubrica “Addio Mosca!” – è lasciar andare in rovina edifici inclusi nella lista del patrimonio protetto, per poi poterli abbattere con la scusa del rischio agibilità. Sostituendoli con restauri irrispettosi dello stile originario, o nuovissime costruzioni di dubbio gusto. Del resto, si legge nel volume, il registro degli edifici storici di Mosca (che pare contenga 3000 nomi) non è mai stato pubblicato. Colpiti da questo furore edilizio sono edifici napoleonici, ville zariste, esperimenti modernisti, palazzine art nouveau. Celebre è il caso del Manezh, neoclassica scuola di equitazione imperiale (1817) a fianco del Cremlino, distrutta da un misterioso incendio nel 2004 e resa irriconoscibile da un restauro che ne ha alterato le proporzioni. Poi lo smantellamento degli storici megahotel sovietici a due passi dalla Piazza Rossa: il Moskva del 1930 (ex quartier generale dei bolscevichi) e il Rossija del 1967 (destinato ai delegati dei congressi del Pcus), le cui 3000 stanze saranno sostituite da un megacomplesso di 11 edifici firmato Norman Foster. O il sacrificio dei magazzini decò Voyentorg, nonostante le proteste pubbliche. A novembre scorso risale il primo caso di inchiesta giudiziaria su un abbattimento non autorizzato dal comune: la settecentesca Blacksmith House. Lo skyline cittadino pare destinato a cambiare per sempre: l’ufficio del sindaco ha annunciato di voler innalzare 60 grattacieli nei prossimi 10 anni, alcuni di 50 piani. Molti vedranno la luce nella nuova City di Mosca, megaquartiere per il business in corso di lavori a Krasnoprenskaya sulle rive della Moscova, spianando 2,5 milioni di mq di terreno. A battersi per salvare la Mosca storica dalle ruspe sono i gruppi “preservazionisti”, che negli ultimi anni sono riusciti a creare un movimento di protesta civile contro la distruzione sistematica del patrimonio cittadino. Tra i più agguerriti gli esperti internazionali di Maps (Moscow Architecture Preservation Society), che hanno fatto notizia in Europa lanciando l’allarme sui rischi di sparizione che corre l’eredità grandiosa del Costruttivismo russo: l’avanguardia modernista che fu l’ultima grande utopia architettonica sovietica (1920-1934 ca.) prima dell’avvento di Stalin. A occuparsi del possibile recupero degli ex immobili di Stato è invece il National Fund for the Rebirth of the Russian Estate. Dal 2003 il sito web Moskva Kotoroy Net (Mosca che non c’è più) accoglie una vasta collezione di foto d’epoca di edifici e strade scomparse, e riesce a mobilitare in poco tempo centinaia di persone contro le demolizioni. Mentre il Museo Shchusev conserva un milione di documenti d’archivio sulla storia dell’architettura russa. Più sotterraneo e difficile, ma portato avanti con passione da attivisti, è l’impegno di MosKultProg, che guarda soprattutto ai “piccoli monumenti di quartiere” dal valore storico meno riconosciuto. “Un lavoro da rabdomanti del passato”, conferma Nikitin: “Vogliamo far riemergere una Mosca dimenticata, illuminando tesori inattesi a due passi da casa che nemmeno i moscoviti doc conoscono, senza i quali questo grande spazio cittadino diventa completamente anonimo”. Un esempio è la “passeggiata di Lisa”, che ha visto accorrere 160 persone e due troupe tv. Eroina tragico-romantica di una novella di Karamzin (Bednaya Liza, 1792), la fioraia Lisa si suicida per amore di un nobiluomo in un laghetto, localizzato presso il monastero Simonov. Nell’Ottocento il luogo divenne immensamente celebre tra gli innamorati di Mosca, u chiamato per questo “Stagno di Liza” (Lizin Prud), e diede il nome anche alla fermata della ferrovia “Lizino”. Dagli anni 30, racconta Nikitin, il lago è interrato per far posto a un palazzo dei lavoratori; poi la zona diviene sede delle più importanti industrie cittadine (SIU, Dinamo, DPZ), e vi spuntano alcuni zhladima, enormi condomini staliniani per operai. Infine con l’arrivo della metropolitana, la cui fermata diviene Avto Zavodka, “il nome di Liza scompare definitivamente dalla mappa di Mosca”. Oggi, continua lo studioso, assistiamo a un’ennesima trasformazione: tutte queste industrie sono in crisi e chiudono, il sindaco vorrebbe abbatterle, e il quartiere cerca una nuova identità: “La nostra passeggiata ha riportato alla luce e legato tra loro tutte questi stratificazioni storiche che sembravano isole a sé stanti”. Spesso i percorsi di MKP si trasformano in sedute di reminescenza collettiva per i partecipanti, che richiamano alla mente edifici scomparsi, nomi di strade cambiate e il prezzo del pane nei piccoli negozi di un tempo. Un altro tour del gruppo tocca l’Anello dei Giardini, storica cintura verde che circonda la città da inizi 800, la passeggiata preferita dai moscoviti fino a pochi anni fa: oggi è diventata una delle principali arterie di traffico della città, invasa da smog e rumore. Lungo il percorso c’è la casa di Chekhov, una residenza di pittori art nouveau, palazzi ottocenteschi e un ospedale settecentesco, ma nessuno li nota più. L’esplosione del mercato automobilistico dopo il crollo dell’Urss ha cambiato radicalmente il paesaggio cittadino. La ristrutturazione delle arterie viarie intrapresa da Luzhkov per contrastare l’emergenza traffico (con la nuova autostrada a 10 corsie che si snoda intorno alla città, il terzo anello di scorrimento interno e il raccordo anulare MKAD) ha cancellato un’altra porzione di memoria metropolitana. In compagnia di Rakhmatullin Mkp ha visitato il quartiere adiacente alla nuova tangenziale, dove dagli inizi dell’Ottocento e fino a 5 anni fa passava l’acquedotto zarista: nessuno degli abitanti della zona se ne ricorda, nemmeno gli anziani. Una rimozione repentina, osserva Nikitin: “Nell’opinione pubblica manca la consapevolezza del problema, e la percezione della qualità del patrimonio da preservare”. Passeggiata d’impronta letteraria è anche quella guidata dal famoso poeta Prigov, che a Mkp ha raccontato il quartiere dove vive da 40 anni e cui ha dedicato tante liriche: Belyaevo, sudovest di Mosca, cementificato grigiore brezhneviano. Qui dagli anni 60 agli 80 vissero tutti i più importanti intellettuali russi: vi nacquero due centri importantissimi per l’arte underground sovietica, e un cinema che mostrava film non allineati che non uscivano nei cinema centrali, Tarkovskij incluso. Nel secolo scorso Mosca ha vissuto almeno due radicali trasformazioni. Nel 1917 i bolscevichi si trovano davanti una città fatta in gran parte di legno. Nel 1935 col “piano Stalin” l’architettura (verticale) diventa ideologia del potere con le mastodontiche Sette Sorelle. Brezhnev nel 1971 disloca la crescita urbana in estrema periferia, creando dormitori-satelliti. “Ma contrariamente a quanto si pensa, i sovietici non eliminarono completamente l’eredità architettonica prerivoluzionaria, pur colpendo pesantemente chiese, palazzi e ville. Alcuni edifici antichi si sono incredibilmente conservati sul territorio cittadino fino a oggi”, fa notare Nikitin. Là dove ora si allungano le periferie, la Mosca ottocentesca si apriva su tenute nobiliari e giardini privati. Ma già alla fine del secolo la rivoluzione industriale aveva riempito questo spazio di alloggi comuni per i lavoratori (come a Maryino), impiegati nelle fabbriche tessili o militari. Già nel 1900 Mosca era una metropoli molto industriale e con una grande crisi ecologica. “Ma l’architettura industriale – lamenta Nikitin -, oggi oggetto di sapienti riqualificazioni da Londra a Parigi, qui non è ancora considerata monumento”. Forse però qualcosa sta cambiando: di recente la manifattura tessile Danilovski è stata convertita in centro culturale, la fabbrica di seta ottocentesca Rosa Rossa a Gorki Park diventa spazio multifunzionale, poco distante il nuovo Centro per l’Arte Contemporanea ospita importanti studi di architettura in ambienti industriali d’epoca, il complesso di gallerie d’arte ArtStrelka fa rivivere garage dismessi nella fabbrica di cioccolato Ottobre Rosso. Mentre fra i nuovi ricchi tornano di moda le case antiche, e si ricomincia ad apprezzare il gusto retrò. Con la superstrada intasata dal traffico,il centro di Mosca si raggiunge in due ore, o in più di un’ora d’estenuante viaggio nella sempre superaffollatametropolitana, dove gli spazi si riducono ancora di più d’inverno quando cappotti e pellicce aumentano di vari centimetri la circonferenza d’ognuno. Non un bar dove trovare riparo dalle gelide temperature invernali o un ristorante dove rifocillarsi con un borsch o una solyanka, quella zuppa acidula con i cetriolini in salamoia e la fettina di limone galleggiante, di cui i russi sono inspiegabilmente ghiotti. Alle otto di mattina e alle sette di sera il sentiero ricavato tra i cumuli di neve dal calpestare giornaliero di migliaia di passanti, si riempie di una processione di pendolari, che con passo attento — per evitare le insidie che le lastre di ghiaccio nascondono sotto la neve fresca — si dirigono verso la metropolitana per andare a lavorare in centro. E poi niente. Solo il vento, la neve, il rumore del traffico e lo scavare incessante delle ruspe. Sempre in funzione. Giorno, notte, weekend. I bracci metallici delle gru che montano i palazzi: sedici piani di pannelli di cemento (con finestre e balconi già attaccati) che s’incastrano uno sull’altro, come i mattoncini dei Lego. Palazzi costruiti uno accanto all’altro per non sprecare neanche un centimetro di prezioso terreno e che spuntano ogni giorno, come funghi velenosi rivestiti da scadenti piastrelle gialle, marroni, azzurrognole. Palazzi tutti uguali. L’unico punto di riferimento per trovare una strada sono le ciminiere che feriscono l’orizzonte e sputano di continuo fumo bianco. Benvenuti a Bibirevo, dice il cartello di un’agenzia immobiliare. Benvenuti in unmicroraion, o in uno dei tanti quartieri tipici dei sobborghi di Mosca. L’atmosfera dei microraiony è deprimente, ma nessuno si può permettere di vivere in centro, mi racconta Yelena, una manager di 35 anni che pochi anni fa ha venduto il suo monolocale del centro per avere qualche metro quadro in più per i suoi due bambini. «In centro dividevamo 35 metri in quattro, qui abbiamo tre camere», spiega. Negli ultimi dieci anni i prezzi degli immobili sono decuplicati. Un metro quadro in un appartamento residenziale nella centrale via Ostozhenka costa più di 40mila dollari al metro, prezzo che persone come Yelena — 2,000 euro lei e 2,500 il marito — seppur benestanti non possono permettersi. L’unica scelta sono i più proletari microraiony dove un metro quadro costa ora sui 5mila dollari. E questo è il prezzo di un appartamento non rifinito, senza, cioè, intonaco e pavimenti, ma solo con i pannelli di nudo cemento armato (è così che di solito sono venduti questi appartamenti). Nonostante i prezzi esorbitanti, gli appartamenti a Mosca continuano ad andare a ruba. C’è stato solo un breve periodo nell’inverno del 2009 quando il mercato immobiliare a causa della crisi si è fermato per qualche mese e i prezzi sono calati di poco. Ma ora, dicono gli agenti immobiliari, il mercato si è ripreso. È di nuovo in movimento e come prima la richiesta supera di gran lunga l’offerta. I giovani moscoviti vogliono infatti trasferirsi dagli appartamenti dell’epoca comunista, dove anche tre generazioni vivono stipate in spazi di 50 metri. Poi ci sono quelli delle regioni che arricchitisi grazie agli alti prezzi del petrolio degli ultimi anni aspirano a possedere un punto d’appoggio a Mosca. Nessun russo comprerebbe un appartamento in provincia. Quando uno investe nel mercato immobiliare in questo paese compra a Mosca, dicono gli esperti nel settore. E così anche quei palazzi-alveare tipici della periferia (e non solo), quel miscuglio tra casa popolare e condominio, sono venduti come case di lusso. Negli anni Cinquanta e Sessanta il regime comunista costruì migliaia di appartamenti e trasformò intere aree periferiche della città nei cosiddetti microraiony, ospalnye raiony (quartieri dormitorio). Lo scopo era quello di dare un alloggio individuale ai milioni di cittadini che vivevano ancora nelle komunalki, o appartamenti in comune, dove ogni famiglia aveva una stanza e divideva cucina e servizi con altre. Nella visione comunista del mondo l’omologazione del design e i materiali usati avevano lo scopo di eliminare ogni forma di competitività. Questi microraiony concentrarono migliaia di persone in ristrette aree ai confini della città, mentre gli ampi spazi attorno al centro venivano occupati dalle fabbriche. E la tradizione sovietica di ammassare le persone è rimasta. Come anche il design. La differenza è che ora si costruisce per ricavare il massimo del profitto e a differenza del periodo sovietico nessuno pensa alla sicurezza o alla qualità dei materiali usati. Lublino, Butovo, Novokosino, Bibirevo, Strogino, Vikhino, Medvedkovo sono quartieri uguali l’un l’altro. Superaffollati. Palazzi su palazzi senza un filo di verde. «La gente è costretta a vivere in spazi stretti, in queste zone periferiche e a passare ore e ore a viaggiare per andare al lavoro. Io passo tre ore al giorno nei mezzi pubblici gremiti. La macchina per andare al lavoro non posso usarla perché ci impiegherei più tempo», racconta Yelena. «Questa è la vita a Mosca». Secondo l’ultimo censimento condotto nel 2002, Mosca ha 10,4 milioni d’abitanti — o 2 milioni in più rispetto a 15 anni prima –, mentre circa un milione di persone ogni giorno arriva dalle cittadine limitrofe per lavorare. Ma Mosca attira anche lavoratori da altre parti della Russia, dove l’economia è stagnante o in declino, e dai paesi ex sovietici. Secondo stime non ufficiali la città raggiunge i 16 milioni di presenze giornaliere. Più gente significa più macchine. Secondo i dati della polizia stradale sono circa 200mila le vetture che ingorgano ogni giorno i 6mila chilometri di strade della città, e il numero potrebbe arrivare a 300mila nel 2012. Mosca allora, dicono gli esperti, non si muoverebbe più. Secondo una relazione di Greenpeace, pubblicata nel 2006, circa 200,000 macchine all’anno si aggiungono al caotico traffico cittadino. La propka (ingorgo) è diventata il problema numero uno a Mosca. Le autorità cittadine dicono che la capitale perde miliardi di dollari l’anno a causa del traffico. Le macchine viaggiano ad una velocità media di 16 km l’ora nel centro di Mosca e 25 in altre parti della città. La metropolitana che funziona dalle sei di mattina all’una di notte, trasporta 9,5 milioni di passeggeri al giorno, o molti di più di quelle di New York e Londra messe assieme. «Io vivo nella ‘grande muraglia’. È così che chiamo casa mia perché è quella più lunga del quartiere», a parlare è Sergei, pittore di 23 anni, che vive con la mamma, la nonna e due sorelle in un appartamento di tre camere nello spalnyi raion di Strogino. «Come viviamo noi giovani qui? Passiamo ore in metropolitana per andare a lavorare o per arrivare nei locali del centro». «Tutto il giorno lo passiamo a saltare da un mezzo all’altro per coprire le distanze di questa megalopoli», racconta. «Ma nonostante ciò Mosca ha un’energia particolare, c’è vita in questa città. È l’unico posto dove potrei vivere», aggiunge.